Buongiorno e buon anno Glimposo a tutti voi!
Per questo primo post dell’anno ho scelto di mettere un
attimo da parte le fiabe classiche (ma poi le riprendiamo eh, non vi
preoccupate), per raccontarvi invece la storia di due donne e di un incontro
tanto difficile inizialmente, quanto poi profondo e toccante.
La nostra storia comincia quasi vent’anni fa, quando una
delle due nostre protagoniste aveva all’incirca sedici anni ed era nel pieno
del turbine adolescenziale, convinta di sapere già tutto della vita, sempre in
costante ribellione con tutto e tutti, e alle prese con un lato e un gusto
artistico acerbo e ampiamente limitato.
La classica adolescente, insomma.
Questa
ragazzina, che così per comodità chiameremo Jennifer, un bel giorno venne
portata a vedere una mostra di una pittrice che non aveva mai sentito nominare
e di cui, giusto per dovere di cronaca, non poteva importarle di meno. Controvoglia
e abbastanza seccata, Jennifer entrò alla mostra, non avendo idea di doverci
rimanere per più di due ore.
Al primo quadro pensò che si trattasse di uno
scherzo: dai, nessuno poteva dipingere così male. Al secondo rimase
letteralmente inorridita: ma chi avrebbe mai scelto di rappresentare una donna
così brutta con dei fiori in testa, con un sopracciglione che manco Elio e per di più con i baffetti?? Ah, era un autoritratto della pittrice, ottimo. E
non ne aveva mica fatto uno solo di autoritratto, macché, ce n’erano un sacco,
uno più brutto dell’altro. Uno con le scimmie, uno con dei vestiti assurdi e
improponibili, uno addirittura doppio. E dopo gli orribili autoritratti, si
poteva passare dalla rappresentazione di episodi di cronaca nera, a tragici
episodi di vita dell’autrice, in un turbine di allegria e spensieratezza senza
eguali. Insomma, per Jennifer furono due ore pesanti, infinite e assolutamente
senza senso.
E una volta fuori dalla mostra, decretò di non voler mai più avere
a che fare con “opere d’arte” di quel tipo. Che l’arte era un’altra cosa,
l’arte era bella, era serena, l’arte era Caravaggio, mica sta qua che com’è che
si chiama? Ah sì, Frida qualcosa. No, no per carità.
Facciamo ora un salto temporale di una quindicina di anni e
ritroviamo la nostra ragazzina ormai cresciuta, alle prese non più con turbe
adolescenziali, ma con uno di quei periodi neri che a volte la vita ti
costringe ad affrontare. Ed eccola lì, la nostra Jennifer, che non sa dove
sbattere la testa, e che poi si ricorda dell’arte. Quell’arte che la faceva
stare bene, dipingendo e disegnando. Ma ora è tutto diverso. Ora non c’è spazio
per il bello, perché di bello c’è poco e niente e allora succede. Succede che
arriva il bisogno (perché di bisogno si tratta) di mettere su tela e su carta
quello che hai dentro, quello che senti e provi, anche se è brutto, anche se fa
male. Anzi, soprattutto se è brutto e fa male. E butti il colore sulla tela, la
graffi, la copri completamente, e fanculo al bello. E poi riguardi quello che
hai fatto ed è esteticamente brutto, ma per te no. Perché qui non è più una
questione di bello o brutto, è questione che quello che hai dipinto sei tu,
punto. E non devi essere bella o brutta, sei semplicemente tu. Ed è
esorcizzante, cominci a stare meglio, e quello che dipingerai dopo sarà forse
più sereno, ma ormai non avrà più importanza se sarà “bello” o no, purché sia
tu.
Pochi anni dopo questa nuova esperienza artistica, succede
che Jennifer incappa per caso in un documentario su Frida, quella stessa Frida
che anni prima l’aveva così inorridita. Un po’ scettica e con un sorrisetto da
“se vabbè, ho già visto quello che c’era da vedere tanti anni fa”, decide di
guardarlo. Un’ora dopo si ritrova letteralmente in lacrime al racconto della
vita della pittrice che anni prima aveva tanto snobbato e denigrato.
Sissignori, la sottoscritta pippa qui presente, aveva finalmente capito che non
aveva capito proprio un bel niente. La sciocca adolescente che vedeva dei
brutti tratti e dei soggetti spiacevoli, adesso se ne stava col magone zitta in
un angolo, vergognandosi come non mai.
Perché dietro a quei quadri, non c’era un bello o un brutto.
C’era Frida, così com’era, con quello che viveva e provava, punto. C’era una
donna forte e fragile, una donna innamorata, ferita, orgogliosa e unica, che
metteva sé stessa in quello che faceva. Ogni suo quadro, ogni sua opera
racconta di lei, senza maschere, senza inganni, con una sincerità che ci lascia
disarmati, che ci trapassa come un pugno nello stomaco. E fa male. Ma fa anche
bene, eccome se fa bene.
Ho avuto la fortuna di tornare lo scorso anno a vedere una
mostra della Signora Kahlo, ed è stata un’esperienza bellissima e toccante, di
cui porterò sempre un prezioso ricordo nel cuore.
Così oggi voglio lasciare a tutti voi un augurio per il
nuovo anno. Voglio augurarvi di avere occhi che vadano al di là del bello e del
brutto, voglio augurarvi di picchiare il naso contro i muri che spesso ci
costruiamo da soli, voglio augurarvi di mettere sempre voi stessi in tutto
quello che fate, così come siete senza filtri e senza maschere. E infine voglio
lasciarvi un augurio con le parole di quella meravigliosa donna che era Frida:
“Innamorati di te, della vita e dopo di chi vuoi”.
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